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Automobilismo – Jules Lucien Andrè Bianchi

Gli sport di velocità sono pieni di incidenti che hanno portato alla morte dei protagonisti, ma nel caso del povero Jules Lucien André Bianchi il fato è stato veramente beffardo e infame.

Jules Bianchi, nizzardo di nascita ma con origini italiane, fin da piccolo ha avuto nell’automobilismo un chiodo fisso, un chiodo che con la bravura, la passione e la voglia lo portò nel 2009 ad essere inserito nella Ferrari Driver Academy.

Il 5 Ottobre 2014 si stava svolgendo il GP di Formula 1 del Giappone a Suzuka in una giornata piovosa; la gara viene dominata in lungo e in largo dalle Mercedes di Hamilton e Rosberg, mentre per le Ferrari la gara è deludente con Alonso ritirato per problemi di elettronica e Raikkonen invischiato a metà gruppo e lontanissimo dai primi.

L’unica possibilità di vedere dello spettacolo sono i sorpassi nelle retrovie o qualche incidente, cosa che si verifica al giro 40 quando il tedesco Adrian Sutil su Sauber Ferrari perde il controllo del mezzo finendo fuori strada alla curva Dunlop.

Immediatamente la gru dei commissari di corsa si attiva per rimuovere il veicolo; al giro successivo nell’approssimarsi alla medesima curva Jules Bianchi perde il controllo della sua Marussia quando sta andando ad una velocità di 213 km/h.

Il giovane Jules tenta di frenare, ma le condizioni dell’asfalto ritardano il rallentamento del veicolo che si schianta incredibilmente contro la gru ancora alle prese con il veicolo di Sutil infilandosi praticamente con il muso sotto l’enorme mezzo di soccorso.

Purtroppo, è stato calcolato che il casco di Bianchi ha urtato contro la gru alla incredibile velocità di 126 Km/h; il pilota subito soccorso morirà dopo nove mesi di coma, senza aver mai ripreso conoscenza.

Non entro nel merito delle cause, ma è evidente che la gru non doveva trovarsi in quella posizione.

La Fia nella persona del suo Presidente Jean Todt ha ritirato per sempre il numero di macchina appartenuto a Bianchi, il n. 17 dalle competizioni automobilistiche.

Siccome la morte mette spesso il dito nella piaga, concludo dicendo che il secondo nome di Jules, Lucien, gli fu dato in onore del nonno, anch’esso pilota e anch’esso deceduto in gara durante le prove della 24 ore di Le Mans nel 1969…che destino beffardo!!!

 

Pugilato – Duk Koo Kim

Quello di cui vi sto per raccontare purtroppo l’ho visto in diretta, insieme a mio padre e vi devo confessare che quell’immagine mi ha perseguitato per molto tempo. L’immagine di Duk Koo Kim abbattuto da Ray Boom Boom Mancini.

Il pugilato è veramente uno sport nobile che può non piacere, ma che sicuramente ha da sempre un seguito molto ampio.

Anche questo, come molti altri sport, si è trasformato e chi si ricorda gli incontri di Alì, Sugar Ray Leonard o Thomas Hearns non può certamente vedere di buon occhio i vari Conor Mc Gregor o Tyson Fury sia per la classe che per lo stile di boxare.

Ai primi degli anni ‘80 si stava affacciando al mondo della boxe il più classico dei pugili americani, ma di origine italiana, originario di Bagheria, che rispondeva al nome di Raymond Michael Mancino, conosciuto nel mondo della Boxe con il nome di Ray Boom Boom Mancini.

L’8 Maggio 1982 a Las Vegas vinse il titolo per la categoria dei Pesi Leggeri (WBA) battendo per KO alla prima ripresa Arturo Farias.

Il 13 Novembre dello stesso anno e sempre al Ceaser’s Palace di Las Vegas, Mancini difese la corona contro il Sudcoreano Duk Koo Kim, che era considerato un pugile ampiamente alla sua portata. Mancini, che non si fidava delle informazioni ricevute, si impegnò al massimo delle sue possibilità nell’affrontare il lungo Kim.

Kim per poter sfidare Mancini perse molti chili in pochi giorni e in una intervista prima del match disse “O muore lui o muoio io”; chiaro che queste sono frasi ad effetto che vengono dette a favore di telecamera, ma che rimangono spesso tali.

Effettivamente l’incontro fu una battaglia a viso aperto in cui entrambi i boxeur si espressero al meglio delle loro possibilità e il sudcoreano era talmente preparato che Mancini dichiarò che nel corso del match aveva pensato di abbandonare per i danni che aveva subito all’occhio sinistro e all’orecchio sinistro.

Nel corso delle ultime riprese la benzina nel serbatoio di Kim terminò e il furente Boom Boom cominciò a colpire senza soluzione di continuità costringendo a terra Kim nel corso dell’undicesima ripresa. Alla tredicesima Mancini scagliò 39 pugni consecutivi sul povero Kim che non cadde! Nel corso della quattordicesima e penultima ripresa Mancini continuò a sferrare colpi devastanti e a seguito di un gancio destro terrificante, Kim venne scaraventato contro le corde cadendo a terra come un sacco di patate.

Kim si rialzò, ma l’arbitro Richard Green ne dichiarò il KOT e Mancini venne dichiarato vincitore.

Tutto è bene quel che finisce bene starete pensando; e invece no…pochi minuti dopo la fine dell’incontro Kim entrò in coma, non si riprese più e mori 4 giorni dopo al Desert Spring Hospital il 18 novembre 1982.

La causa ufficiale della morte fu un’ematoma subdurale nel cranio.

Dopo quel tragico evento la Federazione pugilistica rivide alcune regole per proteggere maggiormente la salute dei pugili e diminuì le riprese da 15 a 12.

Kim conosciuto con il nome di Gidae che in italiano vuol dire “intuizione” si portò dietro uno strascico di morte. Infatti, tre mesi dopo la sua scomparsa, la madre di Kim si suicidò bevendo un’intera bottiglia di pesticida, mentre nel Luglio 1993 si suicidò l’arbitro dell’incontro, travolto dai sensi di colpa per non aver interrotto prima l’incontro.

Come nel caso di Antonio Puerta, anche la fidanzata di Kim era incinta e diede alla luce Kim Chi Wan nel 1993. Qualche anno dopo madre e figlio incontrarono Ray Mancini durante le riprese di un documentario intitolato “The Good Son”.

Anche Mancini andò in depressione e la sua carriera di fatto finì dopo quel match.

 

Basket –  Reginald C. “Reggie“ Lewis

Reginald C. “Reggie” Lewis era uno dei prospetti più limpidi del basket americano e giocava nella squadra più iconica dell’NBA, i Boston Celtics, squadra per la quale tifo.

A sedici anni condusse la squadra del suo liceo, i Dunbar Poets ad avere un record in due stagioni di 60 vinte e 0 perse, mettendo questo piccolo liceo al primo posto nazionale del ranking.

Passato alla Northestern University divenne il miglior realizzatore della storia dell’università e al Draft del 1987 venne scelto alla n. 27 proprio dai Boston Celtics, di cui divenne il primo capitano dopo l’era Larry Bird.

La carriera di Lewis fu un crescendo continuo e culminò nella convocazione all’ASG di Orlando in Florida.

Raggiunta la maturità cestistica alla soglia dei 27 anni, durante la preparazione dell’inizio della stagione Reggie Lewis fu stroncato da un attacco cardiaco sul parquet della Brandeis University a Waltham.

Dall’autopsia emerse che Lewis era affetto da una cardiomiopatia ipertrofica, patologia grave del cuore in quanto provoca l’ispessimento delle pareti cardiache.

Purtroppo, a quei tempi i controlli anche nell’NBA americana non erano così precisi come invece sono oggi e un ragazzo di 27 anni ha pagato per questa mancanza di zelo.

Le avvisaglie purtroppo si erano già manifestate; infatti qualche mese prima della sua morte, durante una partita di Regular Season contro i Charlotte Hornets, Lewis stramazzò sul parquet colpito da un collasso.

Sia gli Huskies della Northeastern University che i Boston Celtics ritirarono la maglia n. 35; Lewis è l’unico giocatore NBA al quale hanno ritirato la maglia senza aver vinto mai un titolo, come invece da tradizione.

Dopo la sua morte, che fu un vero colpo per i Celtics e per i suoi tifosi, venne aperto a Roxbury sempre in Massachusetts un centro sportivo a lui dedicato ed in parte anche finanziato dove oggi si svolgono importanti gare di atletica e dove gioca le gare casalinghe la squadra del Roxbury Community College.

Reggie Lewis ha lasciato un’eredità importante per la città di Boston e il suo nome sarà sempre legato al mondo Celtics.

Al momento della sua morte aveva giù un figlio di nome Reggie jr e la moglie era in attesa del secondo che nacque qualche mese dopo; era una bambina che la vedova Lewis decise di chiamare Reggiana…..insomma nella famiglia Lewis il nome Reggie sarà quel filo che terrà vivo il ricordo di un uomo che a 28 anni dalla sua morte è ancora uno dei più amati dai Fans dei Celtics.

 

Vela – Andrew James Simpson

La vela non dovrebbe essere uno sport pericoloso e di norma non lo è, ma quando arriva il tuo momento che tu sia un diportista dilettante o un super professionista medagliato olimpico, non c’è niente da fare.

Parlo di Andrew James Simpson inglese di Chertsey che della vela ha fatto la sua ragione di vita tanto da raggiungere il sogno di tutti coloro che praticano sport di nicchia, che vivono momenti di euforia globale solo in occasione dei giochi Olimpici.

E proprio alle Olimpiadi di Pechino nel 2008 Andrew raggiunge il suo sogno, vincere la medaglia d’oro nella categoria star, mentre alle Olimpiadi casalinghe 4 anni indietro vinse la medaglia d’argento, sempre in coppia con il connazionale e amico Uan Percy.

Simpson vinse anche il campionato del Mondo nel 2010 e ottenne un secondo posto a quelli del 2012. Cosa poteva chiedere di più al suo sport?

Simpson riuscì anche a partecipare all’America’s Cup World Series facendo parte del team svedese di Artemis Racing.

Insomma, Andrew stava sicuramente pensando a quanto il suo futuro sarebbe stato radioso e pieno di avventure, se non ché il 9 Maggio 2013 a 36 anni mentre si trovava a San Francisco durante una sessione di allenamento con Artemis, rimase intrappolato sotto la barca a seguito di una scuffia violenta che lo catapultò in acqua.

Questo è il classico caso in cui un super professionista, affermato e campione olimpico, non è riuscito a prevedere il pericolo a cui stava andando incontro.

 

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by Fabrizio Roscitano

 

 


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