Femminicidio Martina Carbonaro: “L’ho uccisa perché mi aveva lasciato.”
Non è solo una confessione. È una dichiarazione di potere. È la sintesi brutale di una cultura ancora viva, strisciante, che non tollera l’autonomia femminile.
Quelle parole svuotano. Scolpiscono nella mente una verità feroce: certi uomini non odiano le donne. Le possiedono. Le controllano. E quando non possono più farlo, le annientano.
Il femminicidio come linguaggio del possesso
“Mi aveva lasciato.”
Non è un movente. È il segnale di un’identità fragile, un’insicurezza radicale che si maschera da dolore d’amore. È la voce disperata di chi non sa esistere senza dominare. Uccide per trattenere, per evitare l’angoscia dell’abbandono. Perché la libertà dell’altro è insopportabile.
Il femminicidio, in questi casi, non è solo violenza fisica. È una forma estrema di negazione dell’altro. È analfabetismo emotivo cresciuto nel vuoto culturale. Dove non si insegna che l’amore è libertà, non possesso. Dove si confonde il rifiuto con l’umiliazione, e il distacco con la perdita di sé.
L’urgenza di una rifondazione simbolica
Serve educazione sentimentale, certo. Ma serve di più. Serve una rifondazione simbolica. Una trasformazione profonda, culturale e collettiva, che smetta di celebrare l’amore malato come destino. Che insegni ai giovani che l’altro non ci appartiene. Che si può essere lasciati senza morire. E senza uccidere.
Quella frase – “L’ho uccisa perché mi aveva lasciato” – è sincera.
Ed è questo il vero orrore.
Giustizia, non vendetta
Chi uccide per non essere lasciato non può avere sconti.
Basta riti abbreviati. Basta attenuanti. Basta compromessi. Serve la certezza della pena. Serve l’ergastolo.
Non per vendetta. Ma per verità.
Per dire, come Stato e come società, che chi spezza una vita non può riprenderne una nuova, come se nulla fosse.
Giustizia e cultura devono marciare insieme.
Perché se un uomo può uccidere “perché lei se ne andava”, allora è chiaro: abbiamo ancora molto da imparare. E moltissimo da insegnare.
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